Ricciardelli, come rimanere la seconda manifattura in Europa
Con Valerio Ricciardelli esploriamo il suo nuovo libro Ricostruire l’istruzione tecnica. Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare
L’Italia è la seconda manifattura d’Europa. A mettere in pericolo questa posizione vi è però una carenza sempre più grave di tecnici e operai specializzati. Una debolezza strutturale che minaccia la nostra economia.
Valerio Ricciardelli, Maestro del Lavoro con un’esperienza di oltre 40 anni nell’ambito della formazione professionale, ha affrontato il tema nel suo nuovo libro Ricostruire l’istruzione tecnica. Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare (Guerini Next).
Quali sono le ragioni di ordine economico e demografico che rendono necessario ricostruire l’istruzione tecnica italiana?
«Mancano i tecnici, circa 100mila all’anno e quindi mancano alcune competenze chiave per la crescita e lo sviluppo delle aziende. Tutto ciò ha diverse ragioni: una non attrattività verso le professioni tecniche e l’istruzione tecnica, causa anche di un cattivo orientamento scolastico e il tutto accompagnato dal calo demografico in peggioramento.
Poi il non adeguamento dei curriculum in coerenza con i cambiamenti industriali. Mancando i tecnici, ed essendo il nostro sistema previdenziale a ripartizione, mancano anche i contributi previdenziali da versare all’INPS necessari per pagare le pensioni odierne».
Per dar vita a una nuova istruzione tecnica lei propone un approccio olistico, basato sulla “Filiera delle tre E” (Economy-Employability-Education). Può descrivercela?
«Le professioni tecniche sono a servizio del sistema Paese, che è anche la seconda manifattura europea dopo la Germania. Per occuparsi di istruzione tecnica bisogna innanzitutto avere un’idea di dove si vuole indirizzare il nostro settore industriale, dove le aziende devono competere in una economia globale, spesso inserite nelle supply chain di grandi gruppi stranieri.
Per tali ragioni dobbiamo conoscere bene l’economia, quindi le professioni e il loro mercato del lavoro, e quindi l’employability, per poi occuparsi dell’education che serve».
Quale deve essere il ruolo dei docenti in questa trasformazione dell’istruzione tecnica? Ma soprattutto, il corpo docente italiano è preparato a garantirla?
«Occorre una rivoluzione copernicana. Il Paese non è consapevole del problema e delle conseguenze. Servirebbero gli Stati Generali per discuterne. È evidente che deve cambiare il profilo di ruolo dei docenti e la soluzione paventata dell’utilizzo di docenti proveniente dalle aziende merita molta riflessione: un po’ perché la docenza non è solo erogazione dei contenuti, un po’ perché non c’è un numero sufficiente di docenti aziendali e le aziende non sono diffuse in tutto il territorio. Quindi bisogna valorizzare i docenti attuali, anche se non sono ancora preparati per operare in questa trasformazione».
Nel libro lei parla anche di alcune riforme proposte recentemente dal governo italiano, come il liceo del made in Italy o il cosiddetto modello 4+2. Che giudizio dà su queste proposte?
«Non serve il liceo del made in Italy. Serve una buona istruzione tecnica secondaria e terziaria per il made in Italy con percorsi orientati al prodotto e alla produzione e all’esportazione. Il modello 4+2 della filiera tecnologica produttiva, nell’attesa di conoscere i nuovi curriculum, è il rafforzamento dell’addestramento professionale.
Serve occuparsi anche della filiera tecnica, che contiene gli altri processi aziendali: l’innovazione e lo sviluppo prodotto, la gestione industriale, la supply chain, e occorre occuparsi della filiera industriale non produttiva, preponderante rispetto alla produttiva, che riguarda tutte le sales company di beni industriali anche complessi».
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