Transizione 5.0, cos’è successo alle risorse?

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Transizione 5.0, risorse esaurite in poche ore: cosa è successo davvero e perché le imprese sono le prime vittime

L’incentivo che avrebbe dovuto accompagnare la trasformazione digitale ed energetica del sistema produttivo italiano si è consumato come un temporale estivo. Un rumore improvviso, un lampo, poi il silenzio. La misura Transizione 5.0, salutata per mesi come la grande occasione per sostenere gli investimenti in efficienza energetica, digitalizzazione avanzata e formazione, ha bruciato oltre 6 miliardi di euro di risorse disponibili nel giro di poche ore dall’apertura della piattaforma. Il risultato? Migliaia di aziende, in larga parte PMI, rimaste tagliate fuori da un meccanismo che più che uno strumento strategico per la crescita è sembrato un gigantesco “click day” mascherato.

La verità è che il sistema produttivo si è trovato di fronte a un incentivo atteso, più volte rinviato, poi improvvisamente reso operativo con un margine temporale ridottissimo. Le imprese che avevano investito in consulenze, progetti e analisi preliminari si sono precipitate nel tentativo di caricare documenti e certificazioni energetiche ex ante; molte altre, pur avendo già pianificato investimenti coerenti con gli obiettivi della misura, non hanno avuto neppure il tempo materiale per completare la procedura. È un paradosso: lo Stato chiede alle imprese di programmare investimenti pluriennali, sostenibili, documentati e verificabili, ma le costringe poi a correre in una gara a tempo che in poche ore decide chi potrà innovare e chi no.

I requisiti erano tutt’altro che leggeri. Per accedere ai fondi era necessario presentare una certificazione energetica iniziale, rilasciata da un valutatore indipendente e qualificato, capace di attestare il miglioramento dell’efficienza derivante dagli investimenti previsti. Occorreva inoltre predisporre un piano dettagliato degli interventi, indicare le tecnologie coinvolte e dimostrare l’allineamento ai parametri di riduzione dei consumi energetici imposti dalla misura. A questo si aggiungevano la dichiarazione del fornitore, la documentazione tecnica dell’investimento, la certificazione ex post e – per le attività formative – l’obbligo di dimostrare la pertinenza dei percorsi di aggiornamento del personale rispetto alla trasformazione digitale ed energetica dell’impresa. Benedetta sia la “semplificazione”, almeno sulla carta: nella realtà, la procedura richiedeva settimane di preparazione.

Proprio per questo l’esaurimento immediato delle risorse non può essere letto come un semplice “successo” della misura. È piuttosto il sintomo di un meccanismo che ha favorito chi aveva già alle spalle strutture complesse, consulenti full time e budget per progetti pronti all’uso, penalizzando quelle imprese che – pur essendo pienamente in linea con gli obiettivi della transizione digitale e sostenibile – non hanno potuto competere sul piano della rapidità burocratica. In un Paese dove il tessuto produttivo è composto per oltre il 90% da PMI, il risultato è evidente: i più veloci ce l’hanno fatta, i più piccoli sono rimasti fuori.

Le conseguenze rischiano di essere pesanti. Molte imprese avevano impostato piani di efficientamento, acquisto di tecnologie avanzate, rinnovamento dei processi produttivi e formazione del personale contando sull’incentivo come leva per sostenere investimenti altrimenti difficilmente accessibili. Ora si trovano a dover rimodulare, rinviare o perfino sospendere interventi che avrebbero potuto migliorare la competitività dell’intero sistema industriale. È un freno non solo alla transizione energetica, ma alla modernizzazione stessa del Paese.

Il paradosso finale è quello di un incentivo nato per accelerare la trasformazione tecnologica del sistema produttivo italiano che, per come è stato gestito, rischia di ampliare le distanze tra imprese strutturate e piccole realtà. La grande rivoluzione digitale ed energetica promessa dalla Transizione 5.0 non può essere ridotta a un esercizio di velocità al portale ministeriale. Richiede visione, programmazione, continuità delle risorse e soprattutto un sistema che metta davvero le imprese nella condizione di investire.

Oggi più che mai servirebbe un segnale forte: un rifinanziamento adeguato, un meccanismo di accesso più equo e una governance che non trasformi ogni incentivo in una corsa contro il tempo. Le imprese italiane hanno dimostrato di voler investire, innovare e competere. È il sistema che dovrebbe metterle in condizione di farlo. Perché senza una politica industriale che le accompagni davvero, la Transizione 5.0 rischia di restare soltanto l’ennesima promessa di modernizzazione svanita in un clic.

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Immagine di Giulia Chittaro
Giulia Chittaro

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