Contro lo spopolamento e la logica del declino, le cooperative di comunità mostrano che serve un mercato diverso, capace di generare valore dove il profitto non arriva. Ospitiamo un intervento di Simone Gamberini, presidente di Legacoop Nazionale.
Nel dibattito sulle aree interne italiane si continua a oscillare tra due narrazioni opposte ma paradossalmente convergenti. Da un lato, il racconto romantico di un ritorno o di una “restanza” dal sapore pionieristico. Dall’altro, il realismo disilluso dei documenti ufficiali che, di fronte a uno spopolamento ritenuto irreversibile, si limitano a programmare un accompagnamento al declino. Due facce della stessa medaglia, che finiscono per raccontare la stessa storia: quella di territori che si svuotano perché il modello economico e sociale che li ha sostenuti si sta sgretolando. Non è un fenomeno solo italiano. In tutto il mondo si assiste allo spopolamento delle aree interne e un nuovo ciclo di inurbamento. Ad esempio, anche in Giappone si studiano le cooperative di comunità italiane come possibile risposta all’abbandono delle aree interne e per questo Legacoop porterà anche la loro esperienza all’Expo di Osaka 2025.
Il problema è che si continua ad applicare a territori fragili e complessi da gestire, un modello economico “speculativo”, che ci porta a definire le aree interne come “a fallimento di mercato”, non avendo il coraggio di accettare che in determinate aree serve un “mercato diverso”, dove non ci sono margini sufficienti per chi vuole speculare e portare altrove il valore prodotto, ma ci sono margini per chi crea lavoro dignitoso lasciando sul territorio il valore generato, reinvestendo in servizi per la comunità, consapevoli che questi non possono più essere garantiti dal pubblico.

Nelle aree interne servono modelli d’impresa multifunzionali, capaci di rispondere a diversi bisogni, realizzando spesso funzioni non redditizie, ma necessarie a mantenere viva la comunità in cui si opera. Non possiamo immaginare che l’unica possibilità di “sopravvivenza” sia esclusivamente supportata dalla finanza pubblica, che vive ormai da decenni una riduzione significativa delle risorse che costringe i sindaci a tagliare i servizi pubblici, anche quelli essenziali e vedendo sempre più ridotta la capacità progettuali delle amministrazioni locali.
Il risultato è un limbo dove milioni di persone restano sospese tra il pubblico che arretra e dichiara la resa e un privato “speculativo” che abbandona il campo per assenza di sufficienti margini di profitto.
I dati, le analisi, gli studi ci consegnano tutti un quadro delle aree interne molto diverso dalle altre aree del Paese, ci arrovelliamo in tavoli di lavoro e proposte che non incidono mai sul modello economico, che invece ci ostiniamo a pensare con regole uguali per tutti, come se il contesto di partenza fosse lo stesso, non rendendoci conto che se spesso le regole “uguali per tutti” creano ulteriori disparità e aumentano le diseguaglianze. Serve un cambio di paradigma. Serve un modello che metta al centro le persone, non i margini di profitto. È qui che il mutualismo si rivela un’alternativa concreta. Un modello che crea valore attraverso il lavoro, che punta al benessere collettivo e alla coesione sociale. Lo dimostrano anche molte imprese non cooperative che, pur operando in logiche di mercato, adottano pratiche mutualistiche: coinvolgono le comunità, offrono servizi, rinunciando a parte dei profitti.
Allo stesso modo anche le istituzioni e gli enti locali dovrebbero ripensare completamente le modalità di relazionarsi con i cittadini e le imprese su territori fragili, superando la logica degli “appalti” ad ogni costo, favorendo ogni volta che sia possibile politiche che valorizzino maggiormente le realtà presenti sul territorio con logiche di coprogettazione, cogestione di beni e servizi pubblici. Continuiamo ad assistere da parte delle amministrazioni locali ad una chiusura verso l’uso degli strumenti più innovativi presenti nel nostro ordinamento, in ossequio al più tradizionale e italiano principio del “si è sempre fatto così”, che nasconde in realtà una scarsa conoscenza degli strumenti e una tutela personale con tro eventuali addebiti da parte delle autorità, rinunciando a perseguire obiettivi e impatti attesi.
I numeri inoltre confermano la necessità di un mercato diverso e modelli diversi per le aree interne, dove le cooperative rappresentano il 9,1% delle imprese di capitali, contro il 4% a livello nazionale. Nelle zone ultraperiferiche del Sud e delle isole si supera il 13%, con punte del 30% in 222 comuni.
Dove il lavoro manca, le cooperative lo creano. Sono oltre 6.000 quelle attive, danno lavoro a 65.000 persone e generano 7 miliardi di euro di valore. Ogni posto di lavoro è una famiglia che resta, una scuola che non chiude, una comunità che resiste. Le cooperative di comunità poi sono un laboratorio di innovazione sociale. Le 115 cooperative di comunità aderenti a Legacoop coinvolgono oltre 5.400 soci (in media tra 46 e 51 soci per cooperativa), danno lavoro a 560 persone e generano più di 33,5 milioni di euro di valore della produzione, con un patrimonio complessivo di 7,8 milioni di euro. Un valore che va ben oltre il bilancio: ogni occupato rappresenta un legame mantenuto con il territorio, un servizio garantito, una comunità che non si spegne. Il 65% di queste realtà si trova nelle aree interne e il 69% in comuni con meno di 5.000 abitanti. Il 24% ha consigli di amministrazione con almeno il 50% di donne, e nel 33% la presenza femminile è tra il 26% e il 49%. Gli under 35 rappresentano il 13% dei soci.
In un Paese che fatica a offrire opportunità a giovani e donne, le cooperative di comunità dimostrano che un altro modello è possibile.
Non possiamo arrenderci all’idea di accompagnare le aree interne del nostro Paese nel loro declino, è necessario che le istituzioni comprendano la necessità di regole e modelli nuovi, sui quali enti locali, imprese, cooperative e non, e cittadini sono disponibili a confrontarsi e sperimentarsi, perché non possiamo immaginare di “spegnere” un pezzo d’Italia.