Una sovranità simbolica: il dibattito politico sulla titolarità dell’oro italiano
C’è un filo sotterraneo che, di tanto in tanto, riporta l’oro italiano al centro del dibattito pubblico. È un richiamo antico, quasi istintivo: quando l’economia si fa incerta e la politica cerca nuovi simboli da offrire al Paese, le riserve della Banca d’Italia tornano a occupare la scena come un patrimonio remoto e prezioso, custodito nelle profondità dell’istituzione che ne garantisce la stabilità. Anche questa volta accade qualcosa di simile. Un emendamento alla legge di bilancio ha riaperto la discussione su chi debba essere il “proprietario” formale di quell’oro e su quale valore abbia davvero per lo Stato e per i cittadini.
L’emendamento presentato in Parlamento per dichiarare che le riserve auree detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano, ha riportato al centro dell’attenzione un tema che ciclicamente riaffiora quando l’economia attraversa fasi di incertezza. La proposta nasce all’interno del percorso di approvazione della legge di bilancio e introduce un principio di natura più interpretativa che operativa: ribadire che l’oro non è un patrimonio separato della banca centrale, ma un bene riconducibile alla collettività.
L’iniziativa fa leva su un immaginario potente, quello dell’oro come riserva ultima dello Stato, elemento di stabilità e simbolo di ricchezza condivisa. Nelle intenzioni dei proponenti, la formulazione avrebbe il compito di rafforzare il legame tra questo patrimonio e la sovranità nazionale, senza modificare le modalità con cui la Banca d’Italia ne gestisce custodia, contabilizzazione e utilizzo nell’ambito dell’Eurosistema. Lo stesso testo, così come uscito dalla commissione, mantiene un carattere soprattutto politico, poiché l’assetto delle riserve e il loro ruolo all’interno delle banche centrali europee restano disciplinati da norme sovranazionali che limitano ogni margine di intervento diretto da parte dei governi.
Il tema, però, non è privo di ambiguità. Il valore delle riserve auree italiane è elevatissimo e costituisce uno dei principali presìdi di credibilità del Paese sui mercati finanziari. Per questo ogni richiamo, anche solo potenziale, alla possibilità di utilizzarne il valore a sostegno della finanza pubblica genera interrogativi. L’oro, per sua natura, fornisce una garanzia di stabilità monetaria e agisce come strumento di fiducia sistemica: sottrarlo a tali funzioni o modificarne la titolarità in modo improprio potrebbe minare equilibri che nel tempo si sono dimostrati fondamentali per la resilienza del sistema economico italiano.
D’altro canto, l’argomento identitario esercita un fascino trasversale. L’idea che l’oro sia un patrimonio del popolo viene percepita come un’affermazione di trasparenza e di legittima appartenenza, soprattutto in un momento in cui l’opinione pubblica chiede una gestione più chiara delle risorse nazionali. Tuttavia questa visione tende a semplificare un quadro giuridico e tecnico estremamente complesso. Le riserve auree non sono un fondo mobilizzabile con facilità, né uno strumento immediato per finanziare politiche pubbliche; rappresentano, piuttosto, un pilastro di stabilità che richiede continuità istituzionale, prudenza e indipendenza della banca centrale.
Il confronto politico in corso sembra rivelare più un’esigenza narrativa che un progetto concreto di riforma. La scelta di definire l’oro come bene appartenente al popolo italiano non modifica infatti la sua funzione e non introduce strumenti operativi nuovi. Si tratta di un’affermazione identitaria che, pur evocativa, rischia di creare aspettative non realistiche e di alimentare un dibattito fuorviante sulle possibili destinazioni di questo patrimonio.
In prospettiva, resta cruciale la necessità di preservare la credibilità del Paese e l’indipendenza delle istituzioni che tutelano la stabilità monetaria. Collocare un bene di tale portata simbolica ed economica all’interno di una cornice esclusivamente politica può generare più rischi che benefici. Consegnare, anche solo sul piano concettuale, la gestione di un patrimonio così rilevante all’esecutivo richiede una riflessione molto più rigorosa di quella finora emersa. L’idea di trasformare un presidio tecnico in una leva politica, soprattutto in una fase in cui l’amministrazione pubblica presenta evidenti fragilità operative e una struttura decisionale non sempre solida, appare una scelta poco lungimirante. Serve una visione istituzionale più matura, capace di riconoscere il valore dell’oro non come strumento di manovra contingente, ma come garanzia di stabilità per le generazioni future.




