In un’Italia che rischia di abbandonare le sue periferie, il modello cooperativo offre una via concreta per rigenerare comunità, lavoro e partecipazione
La Lettera aperta al Governo e al Parlamento sottoscritta da 140 tra Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e Abati a conclusione dell’annuale convegno dei Vescovi delle Aree interne, ha messo in luce una delle emergenze più gravi e ignorate del nostro Paese: l’abbandono progressivo e sistemico delle aree interne, spesso ridotte a zone di “sopravvivenza assistita”, mentre il centro politico, decisionale, economico e sociale si concentra soprattutto nelle grandi città.
Di fronte a questa “eclissi partecipativa”, emergono però alcune domande: è possibile un’altra narrazione? Esistono strumenti concreti per invertire la rotta?

Una risposta credibile e già operativa senza bisogno di inventare nuove e strane forme societarie arriva dal modello cooperativo così come attualmente disciplinato, troppo spesso trascurato nei grandi piani di sviluppo, ma da decenni radicato anche in quelle aree considerate periferiche dalla logica del mercato e delle grandi città. Le società cooperative, infatti, non sono solo forme d’impresa ma rappresentano storicamente anche forme di vita condivisa, capaci di rigenerare territori a partire dalle persone che li abitano e si adoperano per coniugare inclusione, partecipazione e sviluppo locale. La funzione sociale della cooperazione richiamata dall’articolo 45 della Costituzione italiana consiste proprio nel rispondere a bisogni comuni dei soci e della collettività, attraverso un modello democratico e mutualistico che non mira al profitto speculativo ma al benessere dell’individuo. È proprio nei territori periferici e fragili, dove l’iniziativa privata tende a disimpegnarsi per la scarsa convenienza economica e la pubblica amministrazione gestisce l’ordinario con risorse limitate, che le imprese cooperative hanno sempre scommesso invece sulle persone e sui bisogni reali, impegnandosi – attraverso l’ascolto e la condivisione – a costruire economie di prossimità basate su fiducia, mutualismo e una visione condivisa del futuro.
Esse nascono dal basso, dalla capacità delle comunità di auto-organizzarsi attorno a un progetto comune e, questo approccio, è pienamente in linea con quanto auspicato dalla Lettera dei Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e Abati, nella quale si parla di “processi fondati sull’ascolto dei bisogni” e sulla “mappatura partecipata delle risorse locali”. Per fare questo e come dice anche la Lettera, c’è bisogno però dell’impegno di tutti coloro che abitano e vivono la comunità: ciascun cittadino, l’associazionismo, le imprese profit e non profit, gli enti, le parrocchie, il volontariato, la scuola, le Istituzioni, ma anche di tutti quegli stakeholder che responsabilmente e per le proprie competenze o attitudini intendano partecipare attivamente ad una formula di sviluppo che permetta ai territori marginali di diventare centrali tramite una attenta progettazione partecipativa.
In un tempo in cui le aree interne soffrono lo spopolamento e la fuga dei giovani, il modello cooperativo, così come attualmente normato, può quindi offrire ancora molte risposte concrete per chi sceglie di restare, per chi sceglie di tornare e per chi sceglie di arrivare. In questo diventa possibile creare anche opportunità lavorative nell’ambito dei servizi alla persona, della rigenerazione urbana e rurale, del turismo sostenibile, dell’agricoltura, dell’artigianato locale e del recupero e valorizzazione delle tradizioni culturali.
In tutto ciò, serve da parte dei decisori politici, anche un sostegno più deciso e soprattutto “coraggioso” all’incremento della cooperazione, secondo il mandato dell’articolo 45 della Costituzione, che dovrebbe essere considerato un interlocutore strategico in ogni piano di rigenerazione territoriale. Rigenerare le aree interne significa rigenerare anche la democrazia e, dove la partecipazione scompare e la rassegnazione prende il sopravvento, le imprese cooperative possono riaccendere la speranza, dare corpo a nuove forme di cittadinanza attiva e rimettere al centro la persona, non come destinataria di interventi caritatevoli, ma come protagonista di un cambiamento possibile. Si tratta di un percorso non immediato, ma possibile. A patto che si scelga, una volta per tutte, di credere nella forza della cooperazione e, allo stesso tempo, che ne siano assicurati, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità originarie, dando spazio e supporto a chi, con ostinazione e coraggio, sceglie ogni giorno di restare e di credere che cambiare a beneficio di tutti, sia ancor possibile.
Quindi, abitanti vecchi e nuovi, giovani e anziani che insieme ad una rete multistakeholder, stringono una virtuosa alleanza per un “patto per la comunità” che impegna ciascuno a intraprendere un percorso nuovo di convivenza in luoghi che si prestano per dare spazio a tutti coloro che abbiano voglia di impegnarsi e dare vita ad una “Agorà dell’agire”.




