L’Italia continua a generare innovazione, ma senza un modello di crescita su misura rischia di rimanere indietro: ecco perché serve un nuovo approccio per start up e investitori
L’ecosistema italiano delle start up continua a dimostrarsi ricco di idee, entusiasmo e capacità progettuale. Eppure, quando si tratta di trasformare l’innovazione in crescita strutturale, il divario rispetto ai principali Paesi europei resta evidente. I numeri parlano chiaro: secondo i dati della London Stock Exchange (LSEG Lipper 2025), il Regno Unito concentra 474 miliardi di dollari di capitali dedicati alle imprese, la Svizzera 244, la Germania 84. L’Italia si ferma poco sopra i 12 miliardi. Una distanza che rivela quanto la capacità di attrarre investimenti sia ancora una delle sfide decisive per la competitività del sistema.
Nel primo trimestre del 2025 le start up innovative iscritte in Italia superano quota 12.000 (fonte: MIMIT–Unioncamere), pari al 3,1% delle società di capitale italiane. È un numero in aumento, ma che non si traduce automaticamente in consolidamento. Come segnala l’AIFI Venture Capital Monitor 2024, il 78% delle operazioni di venture capital nel nostro Paese riguarda round inferiori ai 5 milioni di euro, e solo l’8% supera i 20 milioni. È uno scenario che accende una riflessione: non è il talento a mancare, ma un modello capace di accompagnare la crescita.
Una delle criticità più frequenti, infatti, non emerge dalla quantità dei capitali disponibili, ma dall’approccio con cui vengono gestiti. Molte start up, dopo aver ottenuto investimenti iniziali da fondi italiani — spesso con risorse di origine pubblica, come quelle legate a CDP — si trovano incastrate in meccanismi di controllo che sottraggono autonomia invece di generare slancio. C’è chi deve attendere l’approvazione formale del fondo persino per un rimborso spese minimo; chi, per partecipare a un incontro di lavoro in un’altra città, è costretto a seguire processi lunghi e macchinosi. Stiamo replicando schemi tipici del venture capital americano, ma con capitali di scala decisamente inferiore e una cultura della vigilanza che rende questi modelli poco efficaci nel contesto italiano.
È una distorsione strutturale: si applicano procedure pensate per investimenti da milioni di dollari a round che ne valgono poche centinaia di migliaia, con l’effetto di soffocare la flessibilità e la capacità di sperimentare — due elementi essenziali per qualsiasi start up in fase iniziale.
La realtà, però, è che esistono strade alternative. L’esperienza maturata in programmi di accelerazione internazionali mostra chiaramente che ogni Paese deve costruire un proprio metodo di crescita, coerente con la propria cultura economica e imprenditoriale. Non si tratta di mettere in discussione il venture capital, ma di riconoscere che il suo ruolo in Italia deve essere ripensato e affiancato da strumenti più flessibili.
Un esempio arriva da chi ha scelto percorsi di finanziamento misti, combinando bandi pubblici, angel investor, crowdfunding e debito bancario. Un approccio ibrido che permette di mantenere indipendenza strategica e libertà operativa, due elementi indispensabili per crescere senza dover sacrificare controllo e visione.
Il programma ITA-Gener8tor, promosso dall’Agenzia ICE in collaborazione con uno dei principali acceleratori statunitensi, rappresenta uno dei pochi tentativi concreti di creare un ponte tra l’imprenditoria italiana e gli ecosistemi globali più avanzati. Le start up selezionate hanno potuto beneficiare di un mese di formazione intensiva, mentoring e confronto diretto con investitori del mercato USA. Un percorso che ha offerto non solo networking e visibilità, ma anche una comprensione più matura del funzionamento dei diversi ecosistemi, delle opportunità e dei limiti del nostro.
Ma guardando al futuro, la responsabilità non ricade esclusivamente sui fondi o sulle istituzioni. Gran parte della sfida è nelle mani di chi fa impresa. Le start up non devono considerare il venture capital come l’unico percorso possibile, ma concentrarsi sulla creazione del miglior prodotto o servizio, lavorando con costanza, visione e pragmatismo. Crescere è possibile anche senza seguire lo stereotipo del «VC italiano» che, per come è strutturato oggi, non sempre rappresenta la soluzione più adatta.
L’Italia ha bisogno di costruire un modello identitario di crescita: fondato su fiducia, autonomia e capacità di adattare le regole globali al contesto locale, invece di replicarle in modo meccanico. La sfida, in definitiva, è creare le condizioni affinché l’innovazione possa trasformarsi in sviluppo reale, restituendo alle start up italiane la libertà di muoversi, sperimentare e competere.




