L’Europa e il nodo irrisolto dei mercati dei capitali. Perché l’unione dei capitali non decolla e cosa significa per l’Italia
C’è un paradosso che attraversa l’Europa da anni: siamo uno dei continenti con il più alto livello di risparmio privato al mondo, ma continuiamo a faticare quando si tratta di trasformare quel risparmio in investimenti utili alla crescita delle imprese. Una contraddizione ancora più evidente oggi, in un’economia globale che corre veloce e in cui Stati Uniti e Asia riescono a raccogliere capitali con una rapidità e una profondità che l’UE può solo invidiare.
L’ultimo rapporto dell’Associazione per i mercati finanziari in Europa (AFME) fotografa con chiarezza questa situazione. L’ottava edizione del documento, pubblicata a fine novembre, misura lo stato di salute dell’unione dei mercati dei capitali, il grande progetto europeo nato con l’obiettivo di integrare i sistemi finanziari, renderli meno frammentati e più capaci di sostenere l’innovazione e la competitività delle imprese.
La diagnosi, però, è sempre la stessa: l’Europa migliora, ma troppo lentamente. E nel frattempo la distanza con i principali mercati internazionali continua ad ampliarsi.
Il capitale c’è, ma circola male
Uno dei dati più significativi riguarda il risparmio delle famiglie. In Europa i cittadini accantonano molto, ma investono poco nei mercati finanziari, preferendo strumenti più tradizionali e spesso fermi all’interno dei confini nazionali. Questo significa meno liquidità, scambi più costosi e mercati meno efficienti.
Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso: lì il risparmio medio investito in strumenti finanziari sfiora i 290 mila dollari a testa, creando enormi bacini di capitale a disposizione delle imprese. In molti Paesi europei, invece, le cifre sono molto più basse e i mercati ne risentono in termini di profondità e competitività.
Record di obbligazioni, ma la borsa continua a perdere appeal
Il 2025 si sta rivelando un anno positivo per l’emissione di obbligazioni: nei primi sei mesi i volumi dell’UE sono ai massimi da oltre vent’anni. Ma questa vitalità non si traduce in un recupero del mercato azionario. Le nuove quotazioni, le famose IPO, sono infatti in calo del 23%, mentre negli Stati Uniti, in Cina e in altre aree del mondo sono tornate a crescere in modo significativo.
È un segnale importante: le imprese europee preferiscono il capitale privato alla borsa. Un cambiamento che sta ridisegnando gli equilibri della finanza, ma che rivela anche limiti strutturali dei mercati europei, percepiti come poco attrattivi per le scale-up e per chi vuole crescere rapidamente.
La finanza privata avanza, la tecnologia accelera
Negli ultimi dieci anni il peso della finanza privata – dal venture capital al private equity, fino ai business angels – è aumentato in modo consistente. Oggi vale il 20% del finanziamento di mercato dell’UE, più del doppio rispetto a dieci anni fa. È un cambiamento che porta dinamismo e innovazione, ma non basta a compensare la debolezza complessiva dei mercati pubblici, che restano molto più piccoli rispetto a quelli americani.
Sul fronte tecnologico, invece, l’Europa mostra luci e ombre. È leader nell’emissione di obbligazioni basate su tecnologie digitali come la DLT, ma procede più lentamente nell’adozione di strumenti come asset tokenizzati e stablecoin, ambiti in cui gli Stati Uniti corrono più veloci.
Sostenibilità e integrazione: due promesse ancora lontane
Le emissioni di obbligazioni ESG continuano a crescere, ma rappresentano una quota relativamente piccola del totale. E l’integrazione dei mercati europei – obiettivo fondante della capital markets union – resta incompleta: solo una parte molto ridotta dei capitali raccolti si muove effettivamente da un Paese all’altro. La frammentazione continua a essere uno dei principali freni allo sviluppo del mercato unico dei capitali.
Cosa significa tutto questo per l’Italia
Per l’Italia il rapporto AFME offre una lettura in chiaroscuro. Da un lato il Paese migliora e sale al nono posto nella classifica europea dei mercati dei capitali: cresce la raccolta tramite obbligazioni, aumentano le emissioni sostenibili, si muove il fintech, le famiglie investono più della media europea.
Dall’altro lato restano limiti storici: poche IPO, un ecosistema dell’innovazione che deve ancora rafforzarsi e una frammentazione che penalizza soprattutto le imprese medio-piccole, quelle che avrebbero più bisogno di un mercato dei capitali semplice, liquido e accessibile.
Il messaggio finale è chiaro: l’Italia ha potenziale e risparmio per giocare un ruolo importante, ma la vera partita si gioca a Bruxelles. Senza riforme forti – semplificazione delle regole, più integrazione, strumenti di investimento moderni – l’Europa rischia di restare indietro. E con lei anche l’Italia, che più di altri avrebbe da guadagnare da un mercato dei capitali finalmente all’altezza delle sue ambizioni economiche.




