Perché il benessere mentale sul lavoro è priorità assoluta per i professionisti, in Italia e nel mondo?
Dipendenti a tempo pieno, libero-professionisti, con profili junior o senior, operativi nei più diversi settori, quasi tutti concordano su un punto: il benessere mentale, sul lavoro, non è un bene sindacabile. È un must-have.
Ci sono state epoche, nemmeno molto lontane, in cui il parametro prevalente (se non l’unico), nella sfera dei livelli di soddisfazione professionale, si misurava in numeri: quelli relativi allo stipendio in primis, seguiti a ruota da percentuali di premi aziendali e scatti di carriera. Del resto, la retribuzione rimane un parametro di legittima e indiscussa importanza.
Ma se chiedete oggi a una persona che lavora, in pressoché qualsiasi settore e a prescindere dall’età, quali siano le priorità nel contesto professionale, o i fattori di maggiore rilievo per poter sostenere collaborazioni proficue e a lungo termine, è molto probabile che le risposte siano più legate alla sfera emotiva e personale che a quella economica.
A evidenziare questo interessante cambiamento di rotta è un recente studio di Jobseeker, piattaforma dedicata alla ricerca di lavoro con milioni di utenti in tutto il mondo, e pertanto regolarmente aggiornata su tutti trend più recenti – sia sul fronte dell’offerta occupazionale, sia, come in questo caso, sul fronte delle necessità e delle aspettative di chi lavora, è in cerca di impiego o vuole cambiarlo.
Per il 77 per cento dei professionisti che hanno partecipato allo studio, è essenziale che organizzazioni e aziende forniscano strumenti di supporto alla salute mentale. Per esempio, modalità di lavoro flessibile, permessi e ferie retribuiti, congedo parentale: benefit molto concreti, in assenza dei quali l’equilibrio tra vita privata e professionale può diventare molto difficile, aumentando il rischio di burn out. Ma è ritenuto di altrettanto valore un ambiente di lavoro sereno e supportivo, in grado di incentivare senso di appartenenza e collaborazione autentica.
Se è vero, come rileva ancora lo studio, che tali esigenze sono trasversali, possiamo legittimamente dedurre che la consapevolezza rispetto a questi temi non sia appannaggio di nicchie (determinati settori, fasce di età ecc.), bensì appartenga al sentire collettivo. Pur individuando una lieve disparità di genere, di fatto il supporto alla salute mentale sul posto di lavoro è avvertito come prioritario sia dalla maggioranza della popolazione femminile (81%) sia dalla maggioranza di quella maschile (73%). Il che porta anche a dedurre che il benessere psicologico, da tabù, sia diventato argomento di discussione aperta, nonché occasione per condividere opinioni e strategie.
Qualche altro insight? L’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, analizzando i tre pilastri del benessere lavorativo (fisico, sociale, psicologico) ha rilevato che soltanto il 9% degli occupati dichiara piena soddisfazione su tutti i livelli, e che l’aspetto più critico è proprio quello psicologico, con 4 lavoratori italiani su 10 che attribuiscono almeno un’assenza sul lavoro a un malessere emotivo nell’ultimo anno.
Poi ci sono le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS, che ha segnalato un incremento significativo (fino al 25%) dei disturbi psicologici in ambito lavorativo nel periodo post-pandemico, con ricadute negative dirette sulla salute delle persone coinvolte, indirette sulla produttività e sull’economia.
Le aziende che vogliono contenere i livelli di turnover, i cali di produzione e in generale evitare di contribuire, anche indirettamente, al fenomeno che in questi anni abbiamo conosciuto come “Great Resignation”, hanno tutte le indicazioni necessarie per poter agire, partire dai suggerimenti dei dipendenti fino alle linee guida dedicate dell’OMS.
Senza contare le iniziative, sempre più numerose, già messe in atto dalle realtà più attente: oltre agli strumenti tradizionali, pacchetti di coaching psicologico, possibilità di seguire percorsi di mindfulness o sessioni di meditazione, policy di “detox digitale” per garantire disconnessione reale dopo l’orario di lavoro, adozione di “quiet room”, corsi di leadership con focus sull’empatia e sull’ascolto attivo. Tutte soluzioni non solo eticamente doverose ma anche strategiche, perché contribuiscono a creare un contesto più accogliente e sostenibile, in grado di ridurre tassi di assenteismo e turnover da una parte, produttività e brand reputation dall’altra.