Sostegno agli imprenditori italiani
Il Club degli Investitori punta a diventare il principale gruppo italiano di Business Angels a livello globale, supportando imprenditori ovunque
«Abbiamo una visione chiara della nostra missione: vogliamo essere il più importante gruppo di Business Angels italiani nel mondo».
Il percorso verso l’internazionalizzazione è la sfida che sta affrontando il Club degli Investitori, come racconta il suo fondatore e presidente Giancarlo Rocchietti.
A che punto siete?
«È una sfida ambiziosa, ma fondamentale. Attualmente annoveriamo quasi 430 Business Angels, di cui più del 10 per cento sono italiani che vivono all’estero. L’obiettivo è arrivare almeno a 100. Non è una mania fine a se stessa, la nostra missione è supportare gli imprenditori italiani dovunque operino.
Per intercettare quelli che lavorano fuori dall’Italia è necessario avere antenne sul territorio, persone che conoscano l’ecosistema locale. Attualmente abbiamo soci che vivono nelle capitali europee, sulla East e sulla West Coast americane e quest’anno abbiamo iniziato ad affacciarci sul Far East, a Singapore e Kuala Lampur».
Perché è importante guardare anche oltre i confini?
«Il fatto di aiutare gli italiani ovunque operino, non vuol dire investire all’estero a discapito del territorio italiano. Se pensiamo che circa il 50 per cento dei migliori ricercatori italiani trova sbocchi all’estero, nei poli dell’innovazione di Oxford, Cambridge, al Politecnico di Zurigo, all’MIT, vuol dire che c’è un bacino di italiani molto promettenti su cui investire, al di fuori del nostro Paese.
E investire su di loro ha anche delle ricadute sul nostro Paese: spesso le imprese che sosteniamo usano poi l’Italia come hub per l’Europa, se sono al di fuori dell’Unione Europea. Ne è un esempio l’investimento che abbiamo fatto in Alkemist, fondata dal ricercatore Roberto Chiarle a Boston. Lavora nel campo delle biotecnologie e studi terapie innnovative per consentire al sistema immunitario di reagire a tumori molto aggressivi.
La società è nata a Boston, ma la parte esecutiva si trova a Torino, dove Chiarle è ordinario di Anatomia patologica all’Università. Quindi abbiamo investito in una società americana, ma con sede operativa in Italia, dove inizierà la sperimentazione. In qualche modo, questa strategia permette di avviare un percorso di rientro dei cervelli in fuga».
Il Premio Business Angel dell’Anno, da poco assegnato per il 2024, è giunto all’ottava edizione. Innanzitutto, come è andata questa edizione?
«Continua a crescere, abbiamo avuto più di 550 partecipanti in presenza e poi tra quelli che ci hanno seguiti live sul sito e successivamente on demand abbiamo registrato più di 170mila visualizzazioni. Anche questo è un segnale della crescita dell’ecosistema italiano dell’angel investing. E anche lì, il tema centrale è stato quello dell’internazionalizzazione».
Si è parlato molto della sfida tra Europa e America: come siamo messi?
«Sulla scia del rapporto Draghi, presentato da poco, abbiamo parlato della posizione dell’Europa e un primo elemento incoraggiante arriva dal fatto che, per la prima volta, è stato nominato un commissario per le start up. Mi sembra un segnale importante.
Certo, guardando oltre Oceano, i numeri sono impietosi: tra le prime 25 aziende in ambito tecnologico, solo 3 o 4 sono europee, per un valore che si aggira intorno al 4 per cento del totale. Possiamo dire l’America ha vinto la guerra dell’information technology e questo perché ha sempre investito in modo molto più massiccio in Venture Capital. Siamo in ritardo, ma qualche dato positivo per l’Europa non manca.
Come dicevo la nomina del commissario alle start up, ma anche la riduzione del gap negli investimenti: negli ultimi anni siamo passati da un rapporto con l’America di 1 a 5, a un rapporto di 1 a 2,5. Infine, se abbiamo perso la sfida sull’information technology rimangono aperte quelle sulle tecnologie del futuro, dal biotech ai computer quantistici, dal green tech al clean tech, fino all’aerospazio».
I Business Angels como possono contribuire a questo percorso di crescita dell’Europa?
«Credo ci siano tre cose da fare: investire in aziende tecnologiche che abbiano fin da subito ambizioni internazionali; puntare soprattutto sulle nuove tecnologie, sul deep tech, è più complesso, ma anche più stimolante; infine, credo sia importante riuscire a investire assieme a partner internazionali.
Non è facile creare gruppi di Angel Investor che uniscano le forze negli investimenti, ma succede sempre più spesso di vedere fondi internazionali che investono su start up in cui avevamo investito noi nelle prime fasi.
Un esempio è il caso di Algor Education, che aiuta gli studenti a creare mappe concettuali attraverso l’intelligenza artificiale. Nata a Torino, l’abbiamo sostenuta con 150mila euro in fase di Seed, oggi ha raccolto quasi un milione e mezzo di euro grazie a un investimento guidato dal fondo inglese Emerge Education».
Il tema della sostenibilità ambientale resta sempre trainante?
«Mi sembra che ci sia stato un po’ di raffreddamento. Da un lato, perché è stato assimilato, dall’altro perché alcuni obiettivi iniziano a vacillare. Lo stesso Bill Gates ha detto che la sfida oggi dovrebbe essere adattarci al meglio a quello che sta succedendo, piuttosto che cercare di cambiare le cose. Basti pensare al rallentamento dell’elettrico.
L’idrogeno non va avanti perché ha costi troppo alti, l’alternativa potrebbe essere il nucleare pulito. Mi sembra che il messaggio non sia più sostenibilità a tutti i costi, anche se non mancano casi interessanti. Ad esempio, abbiamo investito su una start up che ha come obiettivo ridurre i consumi degli algoritmi dell’intelligenza artificiale».
Un tema caro al Club è la presenza femminile nel mondo start up. Come procediamo?
«Cresce sempre troppo lentamente. Si è vista una crescita importante nel mondo degli investitori: nel Club le donne rappresentano il 10 per cento, dato ancora basso, ma in linea con la situazione in Europa. Ci piacerebbe vedere crescere questo numero e avere sempre più storie di Angel donne di successo».
Quali sono i principali ostacoli alla presenza delle donne nell’ecosistema start up?
«Il primo ostacolo è a livello di formazione. Se si fa eccezione per le biotecnologie, le materie STEM in Italia vedono una grande disparità di genere: sono poche le donne laureate in queste materie.
E nel mondo start up spesso servono competenze tecnologiche. Inoltre, in questo mondo, per raccogliere soldi, devi saper raccontare delle belle storie, rendere appetitosa la proposta e in generale le donne sono più concrete e meno venditrici di storie».